Trattasi di uno sviluppo della tesi di Specializzazione in Psicoterapia conseguita presso Eidos Centro Terapia Familiare di Treviso.
Si ringrazia per la collaborazione il Dott. Piero Muraro, Co-Direttore del Centro di Terapia Familiare di Treviso, Eidos s.c.
Riassunto
L’uomo e la donna reagiscono all’alcol in modo diverso ma i trattamenti che vengono proposti risultano essere indifferenziati per genere. Scopo del presente lavoro è indagare le idee che i professionisti hanno nei confronti dell’alcoldipendenza femminile e del relativo trattamento. La ricerca ha evidenziato una differenza di atteggiamento verso i due generi causata da un pregiudizio emergente tra gli esperti: la donna si approccia all’alcol perché presenta un disagio psichico profondo, quindi più difficile da trattare rispetto al maschio, il quale sembra avvicinarsi alla sostanza soprattutto per cause più superficiali. Questo pregiudizio ha un effetto sulla relazione col paziente che risulta più accudente e attenta nei confronti delle donne rispetto agli uomini. Il legarsi troppo ai pregiudizi limita l’indagine nei confronti della conoscenza del paziente col rischio di diminuirne il successo terapeutico.
Introduzione
L’alcol si distingue, all’interno del panorama delle sostanze psicoattive, come una delle più diffuse e tollerate al mondo e il progressivo e costante incremento del suo consumo, anche da parte della popolazione femminile, rappresenta un forte motivo di preoccupazione (1, 2). Fino a qualche decennio fa alcoldipendenza, prerogativa esclusiva del genere maschile, era associato a concetti di virilità e di forza ed era accettato a livello sociale senza valenze negative, se non nei casi di grave dipendenza. Per questo, nonostante le donne abbiano sempre consumato sostanze alcoliche, le ricerche interessate allo specifico dell’alcoldipendenza al femminile risultano relativamente recenti.
Da un punto di vista biologico, se i danni causati dall’alcol interessano nell’essere umano vari organi ed apparati, per le donne le conseguenze del consumo di tale sostanza sembrano più pregiudizievoli (3, 4, 5). Nonostante, quindi, uomo e donna reagiscano all’alcol in modo diverso evidenziando differenze a livello biologico, psicologico e sociologico-culturale, i trattamenti offerti vengono descritti come non condizionati dalla variabile genere (3, 6, 7, 8, 9): sembrano cioè programmati sulla base di un’unica prassi di lavoro comune sia per maschi sia per femmine. Noi riteniamo queste posizioni non rispondenti alla reale prassi di lavoro; l’obiettivo del presente lavoro è quindi di valutare se esiste una differenza di trattamento in base al genere. Vogliamo inoltre capire, sempre rispetto al problema alcoldipendenza, qualora esistano diversità di trattamento clinico, come quest’ultima si configura rispetto al femminile, ed infine conoscere ed approfondire le ipotesi e le idee condivise dai professionisti del settore. Le idee dell’operatore rappresentano una dimensione importante, strettamente connessa sia al tipo di relazione agita con i pazienti sia al tipo di trattamento attivato nei loro confronti. Se l’alcoldipendenza femminile viene percepita differente da quella maschile e se tra i professionisti vi è l’ipotesi di una diversità di genere è possibile attendersi una diversità di trattamento e di relazione.
Ma procediamo con ordine. Prima di entrare nel merito della ricerca qualitativa sviluppata (metodo e risultati) dedichiamo una breve riflessione ai concetti di ipotesi e pre-giudizio necessari per comprendere lo spirito con il quale consideriamo i temi emersi.
Ipotesi e pregiudizio
Per ipotizzazione si intende la capacità del professionista di formulare un’ipotesi basandosi sulle informazioni raccolte nella relazione con il paziente (10). Formulata attraverso un processo di connessione dei dati provenienti dall’ascolto e dall’osservazione, l’ipotesi rappresenta una possibile descrizione della situazione problematica osservata ed inoltre una linea guida in grado di garantire all’operatore l’attività di indagine e di ascolto del proprio paziente. Un’ipotesi, per definizione, non è né vera né falsa; è solo più o meno utile (10). Il lavoro del terapeuta consiste nel valutare, attraverso l’intervista, la capacità dell’ipotesi di spiegare il disagio presentato. Qualora le evidenze raccolte non confermassero l’ipotesi di partenza è necessario riorganizzare i dati ottenuti per sviluppare una seconda ipotesi: più attinente alla storia raccontata dal paziente. È importante valutare costantemente la plausibilità della propria ipotesi attraverso il confronto con le risposte offerte dal nostro cliente, pronti a modificarla appena emergono delle confutazioni, in una costante co-costruzione di idee fra operatore e paziente. Questo processo implica una continua revisione e riformulazione delle idee del terapeuta (medico o psicologo) (10,11,12,15).
Se l’ipotesi è lo strumento capace di guidare il lavoro dell’operatore, il pregiudizio sistemico rappresenta, per contro, un fattore delicato all’interno del processo terapeutico. Ma chiariamo meglio cosa si intende per pregiudizio sistemico usando l’accezione assegnatagli da Cecchin (13). Il pregiudizio1 è un insieme di idee, valori, convinzioni che stanno alla base dei nostri punti di vista, delle nostre percezioni, e di conseguenza alle nostre azioni. Il pregiudizio quindi non è un’idea errata, non è necessariamente neppure un’idea preconcetta. Nel linguaggio del pensiero sistemico una qualsiasi idea, anche di comprovata utilità, diventa pregiudizio nel momento in cui è esportata o usata per comprendere, spiegare, valutare l’agire di un altro. Questi sono i motivi per cui è impossibile non avere pregiudizi. Allora come mai si parla di pregiudizio vista l’impossibilità di esserne esenti? Presto detto. Pensare di tenere sotto controllo le nostre idee (valori e credenze) quando cerchiamo di comprendere un altro, di fatto aumenta la nostra capacità di ascolto e di comprensione dello stile di vita del nostro interlocutore. È la premessa irrinunciabile per incrementare la curiosità, per ricercare informazioni, per ascoltare, per capire come pensa ed agisce il nostro paziente; attività relazionali che stanno alla base del processo di cambiamento (13).
Ipotesi e pregiudizio risultano allora due costrutti fortemente connessi fra loro dove il primo influenza il secondo e ne è a sua volta influenzato. Per concludere, la consapevolezza di avere dei pregiudizi è una grande risorsa clinica poiché ci aiuta a non considerare le nostre ipotesi come verità incontestabili ma come idee suscettibili di modifica e di approfondimento (13). Passiamo ora alla presentazione del lavoro di ricerca.
Materiali e metodi
La ricerca, di tipo qualitativo, si basa su una serie di interviste fatte a professionisti che lavorano all’interno di strutture deputate al trattamento di problemi alcol correlati. I colloqui si sono svolti nei mesi di aprile-maggio 2012. Al progetto hanno partecipato 10 operatori in qualità di esperti: 5 psicologi-psicoterapeuti (3 maschi e 2 femmine) e 5 medici (2 maschi e 3 femmine), tutti con una pregressa esperienza nel campo del trattamento delle problematiche alcol correlate. La consegna comunicata ai partecipanti era uguale per tutti: presentava il colloquio come una indagine finalizzata a conoscere la loro prassi di lavoro nei confronti dei pazienti alcolisti maschi e femmine.
Le strutture coinvolte nella ricerca sono localizzate nel Veneto, e in particolare nelle provincie di Treviso e di Padova: Ser.A.T. Ulss 8, Comunità Pubblica del Dipartimento per le Dipendenze Ulss 8, Ser.T. Ulss 15, Casa di cura “Parco dei Tigli”.
Le informazioni utili alla ricerca sono state raccolte attraverso un’intervista semi-strutturata basata su una traccia di 5 domande, di seguito elencate:
1) A suo parere nel trattamento dell’alcolismo, il genere del paziente che effetto ha?
2) Parliamo di genere femminile. Che cambiamenti ha notato nelle abitudini al bere e nella richiesta di aiuto? Che spiegazioni si da?
3) Riferendosi alla sua modalità di lavoro, qual è la differenza di intervento tra maschi
e femmine?
4) A suo parere esiste una differenza di approccio fra la dipendenza maschile e la dipendenza femminile?
5) Quando tratta con un’alcolista femmina, cosa pensa sia più utile per l’efficacia del suo lavoro?
Per l’analisi delle interviste è stato adottato il procedimento dell’analisi qualitativa del contenuto, utilizzata principalmente nella ricerca accademica, sociale e valutativa (14).
Con l’analisi dei dati sono stati identificati 6 criteri mediante i quali valutare e classificare le risposte dei vari esperti: trattamento, genere, relazione, abitudini al bere, richiesta d’aiuto ed efficacia. I commenti e le considerazioni sono esclusivamente tratte dal materiale raccolto.
Risultati
Come anticipato procediamo ora con l’analisi descrittiva contestualizzando le risposte ricevute all’interno dei criteri scelti. Per un maggior dettaglio delle risposte è stata usata, ove necessario, anche la variabile professione (medico-psicologo). Ma veniamo alle risposte ottenute.
In merito al primo tema, il “Trattamento”, la maggior parte degli esperti afferma di non rilevare, dalla propria prassi, una differenza di genere: “Non ci sono differenze generali rispetto al trattamento tra maschi e femmine”. Non solo. Il trattamento non sembra condizionato dal genere ma sembra piuttosto sia il paziente con il suo atteggiamento a influenzare l’operatore il quale avverte e verbalizza questa contaminazione: “In base all’atteggiamento del paziente il mio atteggiamento cambia”. Anche con il lavoro di gruppo viene confermata un’unica prassi con maschi e femmine; l’unica differenza evidenziata riguarda la richiesta di un percorso individuale formulata con maggiore frequenza dalle donne: “La metodologia operativa che noi utilizziamo è una terapia gruppale e non vi è differenza tra maschi e femmine, il lavoro è omogeneo; le attenzioni vengono riservate nel momento in cui vi è un lavoro individuale con la persona”. Le donne, sostiene uno psicologo, richiedono, accanto agli incontri di gruppo, anche un percorso individuale: “Viene privilegiato il lavoro di gruppo dove maschi e femmine condividono lo stesso setting terapeutico […] le femmine è più facile che chiedano un trattamento individuale”.
Riassumendo i dati fin qui osservati, gli operatori intervistati confermano un atteggiamento omogeneo, uguale per tutti e indipendente dal genere; la struttura metodologica dei programmi di lavoro non risente di questa variabile.
Ma allora in che modo il “Genere” influisce nel trattamento? Gli intervistati sottolineano che una volta eliminato il problema alcol, nelle donne, piuttosto che negli uomini, affiorano altre problematiche: “Nelle femmine tolto il problema dell’alcol emergono altri problemi che possono essere legati a disturbi di personalità, dell’umore oppure ad altre problematiche”. Le donne inoltre sono descritte come più difficili da trattare: “Le donne sono più complesse e più forti costituzionalmente nello stesso tempo anche più ostinate e più difficili da trattare”. Dal punto di vista medico viene rilevata una differenza nel patrimonio metabolico tra i due sessi tale da giustificare la prescrizione di un differente sostegno farmacologico: “La donna forse ha più necessità di terapia protettiva dal punto di vista epatico, perché la donna va più facilmente incontro a problemi epatici”.
Sintetizziamo quanto appena detto. Emerge l’idea di una donna fragile, problematica e complessa, con un maggior numero di problemi psichiatrici rispetto a quelli fisici (danni questi ultimi attribuiti invece più al genere maschile) e quindi più bisognosa sia di cure sia di sostegno. Entrambe le figure professionali, medici e psicologi, concordano sulla maggiore difficoltà nel trattare la donna con problemi alcol correlati sia nella costruzione di una produttiva alleanza terapeutica sia, nella maggiore difficoltà, rispetto ai maschi, nell’accettazione del proprio problema. La situazione si complica di più per i medici i quali rilevano una maggiore difficoltà nella stesura di un piano di trattamento dal punto di vista farmacologico: la diversa conformazione fisica rende la donna più vulnerabile agli effetti dell’alcol e dei farmaci ed è più a rischio di sviluppare complicazioni a livello organico.
A conclusione di questo secondo punto sembra presentarsi una spiegazione condivisa da tutti sulla differente motivazione che spinge la donna e l’uomo ad accedere alle sostanze alcoliche: la donna accede all’alcol perché presenta un disagio psichico mentre il maschio lo fa per questioni relazionali e di socializzazione, senza apparenti difficoltà psichiche.
La dimensione “Relazione” sembra confermare le considerazioni appena formulate. Sia i medici sia gli psicologi concordano su di un punto, cioè che con la donna, piuttosto che con l’uomo, è necessario sviluppare una relazione profonda: “Forse nelle femmine un pizzico di attenzione e sensibilità in più ci vuole perché sono più problematiche”. Questa idea, basata su una differenza di genere, ci porta a ripensare all’atteggiamento di fondo dell’operatore. L’influenza di una pregressa idea (pregiudizio) può facilmente interferire sullo sviluppo di una relazione in divenire, costruita in questo caso con un cliente immaginato e non con un cliente reale.
Nel punto successivo, gli esperti, chiamati ad esprimersi in merito alle “Abitudini al bere”, riferiscono la sensazione di un cambiamento del bere femminile manifestato attraverso aspetti differenti: quantità, stile di consumo, età e popolazione interessata. Ma procediamo con ordine. Il consumo di alcol è aumentato fra le giovani, non solo, si è anche abbassata l’età della prima esperienza: “C’è un leggero aumento nelle abitudini del bere delle donne, ma in particolare nel bere femminile delle giovani donne” e “Le ragazze bevono molto di più di un tempo e in età molto più giovanile”. Per contro le donne di età medio-alta (>40 anni) sembrano invece conservare le abitudini del passato (bere da sole, bere di nascosto, acquistare bevande alcoliche nei negozi, ecc.): “Le donne di una certa età bevono allo stesso modo in cui bevevano le donne una volta, bevono da sole, vanno al supermercato e cambiano supermercato per non farsi trovare dalla stessa cassiera”. Le giovani mostrano un cambiamento della modalità del bere, più simile allo stile maschile, legato ad una funzione sociale (bere per sballare nei bar o nei locali): “Le ragazze più giovani hanno uno stile diverso e non si rileva molta differenza con i maschi”.
Riassumiamo brevemente. Il fenomeno alcoldipendenza al femminile, diverso da quello maschile per accesso, età e stile, mostra una trasformazione di comportamenti e di abitudini: mostra un progressivo avvicinamento allo stile proprio dell’altro genere.
Passiamo ora alla “Richiesta d’aiuto”. Questa dimensione appare articolata e complessa. Psicologi e medici concordano nel considerare minima la differenza fra maschi e femmine rispetto la richiesta di aiuto. Ci spieghiamo meglio. La modalità di accesso è simile; per entrambi si accede al servizio a seguito di un invio, raramente per scelta autonoma: “Nelle richieste d’aiuto non ho notato grandi cambiamenti perché non arrivano mai spontanee”. Una possibile differenza riguarda la minore difficoltà, da parte delle donne, a chiedere aiuto oggi rispetto al passato, frutto forse di una maggiore consapevolezza e/o forse di minore vergogna: “La richiesta di aiuto è diventata più fluida, in generale le donne arrivano al servizio già abbastanza motivate e quindi viene meno l’aspetto della vergogna”. Tuttavia tale decisione, capace di discriminare la femmina dal maschio, appare ancora rallentata dal sentimento di vergogna e alcuni operatori considerano l’ alcoldipendenza femminile come maggiormente stigmatizzata rispetto a quella maschile. Potremmo riassumere questo passaggio ricordando come qualcosa sia cambiato negli anni. Ma anche se l’alcoldipendenza femminile non appare più denigrata come in passato, nella donna il consumo rischioso di alcol provoca comunque un senso di vergogna, tale da spingerla a chiedere aiuto con più difficoltà. Emergono altre interessanti informazioni sulla condizione psicologica e fisica in cui si trova la donna con problemi alcol correlati nel momento in cui esprime una richiesta d’aiuto: “Vengono su situazioni di crisi, su situazioni di grossi conflitti familiari”, e ancora, “Capita che vengono a richiedere aiuto perché in casa è capitato qualcosa di pesante, magari non riescono più a gestire i figli o la famiglia, spesso casalinghe inviate dai medici di base o dal pronto soccorso”. Queste affermazioni confermano la dimensione relazionale della richiesta d’aiuto: risposta o reazione a condizioni critiche, intollerabili e incontenibili, effetti di un contesto in cui la donna non riesce più ad adempiere ai propri innumerevoli impegni.
Diversamente dall’alcoldipendenza al maschile quando si pensa al femminile, la posizione dell’operatore si amplia includendo frequentemente il compagno e addirittura la famiglia; nel caso del compagno: “Le donne hanno spesso accanto uomini poco accudenti e sono svantaggiate da questo punto di vista perché se fossero più sostenute chiederebbero più aiuto” e nel caso della famiglia assume rilevanza l’atteggiamento complessivo rispetto alla paziente; non è insolito scoprire, a seguito della richiesta d’aiuto, un atteggiamento familiare ostile e di scarso supporto. Sono soprattutto i partner a mostrarsi poco comprensivi e valutativi. Un ulteriore aspetto di trasformazione del fenomeno alcolismo al femminile è rappresentato infine dalle fasce di popolazione coinvolta: “La donna che arrivava a bere era una donna frustrata, demotivata, matura e spesso casalinga; ora vediamo spesso donne anche in carriera”; mentre un tempo a richiedere aiuto erano solamente casalinghe, oggi anche donne in carriera o impegnate in attività lavorative mostrano episodi di dipendenza.
Riassumiamo con una riflessione in merito alle risposte degli “esperti”. Si notano, tra gli intervistati, idee dissimili non spiegabili su base professionale. Probabilmente la diversità manifestata può trovare una giustificazione in diversi punti quali: la teoria di riferimento di ciascun esperto, una sorta di incertezza generale sulla prassi clinica da adottare, il tipo di struttura nel quale l’esperto opera e infine dal tipo di prestazione erogata al paziente.
L’ultima dimensione che prendiamo in considerazione è l’“Efficacia”. Per efficacia, in questo caso, si intende la capacità di produrre pienamente l’effetto voluto, e l’ottenimento stesso dell’effetto come per esempio di un rimedio, di un farmaco, o ancora la possibilità, nel caso del processo terapeutico, di raggiungere l’obiettivo clinico prefissato. Il tema si presta alla riflessione su un fattore relazionale importante: la “collaborazione”, intesa in senso lato, fra medico e paziente, premessa indispensabile per una qualsiasi relazione clinica. In merito a questo criterio emerge un chiaro accordo fra le professioni coinvolte. Entrambe queste figure concordano sull’esistenza di una sensibile differenza di genere; l’atteggiamento da considerare nel momento in cui si inizia un trattamento clinico: “Con le donne potrebbe essere più utile essere solidali e sostenerle rispetto agli uomini”. È importante coinvolgere, considerare e sostenere la paziente in trattamento per ridurre il rischio di abbandono o di opposizione.
Il punto ora riguarda la necessità di creare una buona alleanza terapeutica, costruire un clima collaborativo utile per un proficuo processo di aiuto. I termini di questa collaborazione terapeutica sono presto detti. Bisogna “Creare una buona alleanza terapeutica per affrontare i problemi credo sia fondamentale”, ascoltare “L’ascolto, credo sia fondamentale perché spesso sono donne poco ascoltate” e infine aiutare la paziente a recuperare il proprio ruolo all’interno del proprio sistema familiare, forse in modo più definito rispetto al corrispondente genere maschile, visto maggiormente in funzione del lavoro: “Avere l’idea chiara del ruolo che la paziente ha all’interno del suo contesto familiare”. Per il medico assumono importanza anche altri fattori come il farmaco, la sua assunzione e la collaborazione con le altre figure professionali: “Per il mio lavoro il farmaco è sempre importante in una prima fase […] per me una cosa fondamentale è la collaborazione con lo psicologo e con l’assistente sociale perché il confronto mi permette di vedere delle cose che magari nel paziente non avevo visto soprattutto per le femmine […] e gestire insieme l’utente fa si che non ci si esaurisca”. Ma non tutti sono sulla stessa linea. Un medico per esempio ritiene non ci siano modalità efficaci diverse per genere, ma sia per i maschi sia per le femmine è indispensabile capire qual è la loro reale richiesta: “L’importante è capire la reale richiesta che la persona ti porta, e capire cosa vuole fare la persona che viene accompagnata, indipendentemente dalle buone intenzioni che ha la famiglia”, e ancora, un altro confessa l’utilità di incrementare l’autostima nelle pazienti: “Si cerca di lavorare con le donne perché riprendano una qualità di vita e un senso di sé più adeguato”. Per quest’ultimo criterio la condivisione fra operatori riguarda l’utilità di stimolare, sostenere e considerare la donna durante il trattamento, accanto alla prassi ritenuta più efficace per le donne alcoliste. Come per il criterio precedente, le diversità di pensiero può dipendere da diversi fattori: dalla professione, dal tipo di lavoro da fare con l’utente, dalla teoria di riferimento, dall’esperienza del professionista, da una probabile incertezza sull’argomento e infine dal tipo di struttura nel quale l’esperto è inserito.
Discussione
L’obiettivo della presente ricerca era di capire se, rispetto alla problematica alcolismo, esisteva una diversità spiegabile con il concetto di genere.
Proviamo a puntualizzare quanto emerso. Rispetto al genere gli intervistati mostrano una valutazione articolata fra due posizioni: la prima, di uguaglianza, basata sulle premesse teoriche e la seconda, di differenza, fondata sulla prassi concreta. Ma entriamo nel dettaglio. Nel complesso le attività proposte, sia per i maschi sia per le femmine sono uguali: attività di gruppo e farmaci prescritti. Per contro nel momento in cui si approfondiscono le idee dell’operatore in merito al paziente, emerge una difformità di genere: la donna con dipendenza da alcol a differenza del maschio, è descritta come più complessa e difficile da trattare, bisognosa di più sostegno, supporto e attenzione, infine bisognosa di instaurare un forte legame con chi si prende cura della sua dipendenza. Tale posizione è suffragata da spiegazioni condivise sulla genesi del problema al femminile. La donna si rifugia nell’alcol a causa di un disagio psichico profondo e complesso tale da richiedere interventi quali il sostegno, l’ascolto, l’instaurare una buona relazione accanto ad una rete di collaborazione tra professioni “per far si che non ci si esaurisca”. Per il maschio la situazione è diversa: l’uomo si avvicina alla sostanza per cause legate alla socializzazione e per tale motivo la sua dipendenza appare meno complessa, forse meno grave, certamente è creduta meno difficile da trattare Le spiegazioni fin qui espresse dagli operatori in merito sia all’origine del disagio sia alle caratteristiche di genere possono essere considerate alla stregua di un “pregiudizio sistemico”. Come tale influenza il comportamento espresso dai professionisti stessi in quanto interferisce sul loro agire clinico spingendoli a diversificare il loro intervento in base alle loro idee sul genere del paziente: nei confronti della femmina l’atteggiamento potrà essere più accudente e attento, in quanto suffragato dall’idea delle difficoltà e fragilità psichiche come fattori scatenanti il problema; nei confronti del maschio, l’atteggiamento potrà essere meno accudente in quanto influenzato dalla spiegazione del problema come connesso ad una causa più superficiale. In entrambi i casi il pre-giudizio non esprime un valore morale e/o valutativo, ma rappresenta esclusivamente una premessa descrittiva da cui deriva una coerente, ed a volte, inconsapevole prassi comportamentale.
Conclusioni
I dati presi in considerazione, anche se mitigati dai limiti propri di una indagine qualitativa, esprimono una differenza di trattamento del problema alcol correlato in base al genere. I professionisti coinvolti nella ricerca sostengono di adottare un trattamento omogeneo per genere. Tuttavia dalle interviste compare una differente descrizione dell’alcoldipendenza maschile e femminile. Tale differenza, configura una struttura di idee, coerentemente organizzate, definibili “pre-giudizio”, senza alcun riferimento alla loro validità scientifica e concettuale.
Ciò che ci preme sottolineare, in questa sede, consiste nell’idea di pregiudizio inteso come premessa valida a priori, capace di influenzare il trattamento clinico indipendentemente dalle specifiche caratteristiche del singolo caso, in quanto concorre alla costruzione di un’ipotesi di lavoro riverente alle proprie idee e poco attento alla singolarità del paziente.
In altre parole un pregiudizio ha l’effetto di accompagnare l’operatore, a volte in modo inconsapevole, a iper investire nei casi di alcoldipendenza femminile, magari attraverso un maggior contenimento, sostegno e ascolto, ed a sottovalutare i casi di alcolismo maschile, mediante una modalità meno accudente, meno profonda e più superficiale.
Si ritiene importante per l’operatore, sia medico sia psicologo, acquisire consapevolezza delle proprie idee (pregiudizi) poiché concorrono ad influenzare atteggiamenti e azioni. La consapevolezza permette di usare un atteggiamento di curiosità favorevole a sviluppare comprensione, che non significa condivisione, utile per esplorare la singola specificità di ogni utente e del proprio problema. In questo modo è possibile favorire l’emergere di informazioni valide per la costruzione di realtà nuove, per trovare delle utili alternative alla rigidità che caratterizza la storia del paziente. La rigidità e la mancanza di nuove letture bloccano il paziente e la sua famiglia in una condizione di sofferenza. L’operatore consapevole della rigidità del paziente e delle contaminazioni prodotte dalle sue idee (pre-giudizi), può più liberamente agire per co-costruire nuove storie, indipendenti da preconcetti, aperte a nuovi contributi e capaci di esplorare nuovi percorsi terapeutici.
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