Più che un bisogno si può definire un impulso innato dell’essere umano a ricambiare il torto subito, sia esso morale che fisico. E’ un desiderio primordiale che ha avuto innumerevoli risvolti fin dai tempi antichi con le prime leggi come quella del taglione, in base alla quale chi subiva un danno aveva il diritto di rispondere, a sua volta, con il medesimo comportamento che doveva essere uguale all’offesa ricevuta.
Psicologicamente, però, e attraverso diversi studi ed esperimenti condotti, la vendetta non porta mai a pareggiare definitivamente i conti. Al contrario di ciò che si possa pensare, infliggere lo stesso dolore o un dolore simile al carnefice, che per primo ci ha arrecato il danno, ci mette allo stesso livello di quest’ultimo e innesca un meccanismo malsano di moltiplicazione di emozioni negative e un mancato giudizio di ciò che è bene e male, in uno stato senza soluzione di continuità. Per di più, la percezione dell’aggressore iniziale, diventato così a sua volta vittima, sarà quella di essere stato ripagato con una punizione maggiore rispetto all’illecito da lui commesso e, anche questo, contribuirà a non rompere il circolo vizioso che si è andato a creare.
Ci sono persone più predisposte di altre a mettere in pratica la vendetta. La vendetta, infatti, segue sempre a dei forti sentimenti di risentimento e di rancore, tali da sfociare in azioni di rivalsa nei confronti della persona che ci ha fatto del male. Tuttavia esistono persone che vivono questi sentimenti negativi in maniera più forte e, tendenzialmente, sono quei profili che reagiscono alle offese, di qualsiasi natura, in forma vendicativa. Ma vediamo quali sono i tratti comuni:
E’ scientificamente appurato che vendicarsi quasi sempre non risolve nulla (sebbene in un primo momento possa aiutare il soggetto a nascondere il sentimento di perdita e di depressione che possono emergere quando si viene lesi moralmente), anzi, la continua voglia di vendicarsi nel tempo mette a rischio la salute, sia psichica che fisica. E di fronte a questa questione, la psicologia ha prodotto innumerevoli ricerche dalle quali emergono i benefici dell’altra faccia della vendetta: il perdono.
Nel momento in cui si è subita un’ingiustizia, la reazione istintuale è quella di sfogare la rabbia e questo può risultare salutare per sé stessi, se non va a ledere l’incolumità di altre persone. Da qui potrebbero configurarsi due strade: la persistenza di sentimenti rancorosi che potrebbero sfociare nella vendetta con i risvolti negativi visti finora, o l’insorgere della volontà di andare oltre. Questo non significa dimenticare l’accaduto ma, invece, superare quell’istinto di agire contro l’altro per dare spazio a sentimenti più positivi e costruttivi.
Perdonare non è semplice e, infatti, non tutti sono in grado di farlo, in quanto questo implica consapevolezza, controllo, compassione, empatia, benevolenza, amore; a discapito di rabbia ed ostilità.
Perdonare porta anche ad avere minori livelli di depressione, ansia, stress, senso di inferiorità o inadeguatezza, oltre ad avere effetti positivi anche sulla salute fisica con minore incidenza di disturbi cardiovascolari.
Un percorso psicoterapeutico può aiutare in questo senso. L’obiettivo è creare le basi per accogliere il perdono attraverso lo sviluppo dell’empatia e della benevolenza verso chi ci ha inferto delle ferite, che dapprima potrebbero sembrare inguaribili ma che, solo adottando una visione diversa, riusciranno a rimarginarsi.
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